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Certo, c’è chi avrà buon gioco a ridacchiare sulla eccentricità di un pelato che, sia pure sottoposto alla messa a dimora di folte chiome luccicanti, dichiara guerra ai parrucconi. Per non dire del brevilineo che muove battaglia ai nani. Ma nel lanciare la sua nuova sfida, indifferente a questi dettagli, il Cavaliere mostra una volta di più di avere una caratteristica forse unica nel panorama della politica italiana: il coraggio spericolato di giocarsela. Gianfranco Fini, Pier Ferdinando Casini e perfino Umberto Bossi, dopo l’ennesima spallata annunciata e poi fallita al Senato, sembravano avergli rubato finalmente la palla? Lui se l’è ripresa di forza, è uscito dall’area in cui pareva asserragliato e si è catapultato all’attacco con una di quelle «ripartenze» da lasciare a bocca aperta anche il «suo» Arrigo Sacchi. Se arriverà in porta è da vedere. Rispetto alla prima «discesa in campo», ha una zavorra finanziaria in meno, dato che i conti aziendali vanno bene e i manager non gli suggeriscono più come Franco Tatò di «portare i libri in tribunale » (parole di Marcello Dell’Utri), ma alcune zavorre politiche in più. Che almeno sulla carta potrebbe appesantire molto la sua corsa. Spiegava allora agli italiani di non «avere intenzione di mettere in piedi una forza politica di vecchio tipo», di volere «un partito liberale di massa» che coinvolgesse uomini «nuovi alla politica, campioni nelle proprie professioni, i migliori», di essere deciso a rimanere estraneo alla «vecchia politica degli agguati e dei trabocchetti, delle congiure e delle manovre di Palazzo». Offriva il ministero degli interni all’«eroe di Mani Pulite», Antonio Di Pietro.
Chiedeva agli aspiranti candidati forzisti di sottoscrivere le seguenti parole: «Dichiaro 1) di non avere carichi pendenti 2) di non aver ricevuto avvisi di garanzia 3) di non essere stato e di non essere sottoposto a misure di prevenzione e di non essere a conoscenza dell’esistenza a mio carico di procedimenti in corso...». Sono passati, da allora, quasi quattordici anni. Tre più di quelli passati da Nikita Krusciov alla guida del Pcus, due più di quelli trascorsi da Helmut Kohl alla testa della Germania, due più di quelli vissuti da Franklin Delano Roosevelt alla Casa Bianca. Per carità, nessun parallelo. Ma tre lustri sono un’era geologica, in politica. Lasciano il segno. E se Forza Italia è rimasto un partito legato al «centralismo carismatico », come spiegò un giorno Cesare Previti, è difficile sostenere che non sia rimasto infettato da quelli che un tempo il Cavaliere considerava virus della «vecchia politica». Quella che gli faceva dire: «Torno a Roma. Torno nella cloaca». Basti ricordare come, dopo l’iniziale richiesta di immacolatezza, siano stati via via imbarcati uomini come Gianstefano Frigerio, vecchia volpe dicì milanese che, condannato a vari anni di carcere in diversi processi di Tangentopoli, fu eletto tra gli azzurri in Puglia dopo un lifting anagrafico con cui si era dato il nome d’arte di Carlo Frigerio. O Alfredo Vito, il famigerato «Mister Centomila Preferenze» cui Paolo Cirino Pomicino ricorda 22 condanne per corruzione. O ancora Gaspare Giudice, del quale i magistrati di Palermo chiesero invano l’arresto considerandolo «a disposizione» del presunto boss di Caccamo, Giuseppe Panzeca. Certo, lui si considera ancora, come disse un giorno, «Biancaneve in un mondo che non è una fiaba». E non ha perso occasione, in questi anni, di sfogarsi contro i riti della rappresentanza che, «tra convegni, congressi e funerali » lo facevano stare male perché gli pareva di «pestare l’acqua nel mortaio».
Contro i «faniguttun », gli sfaccendati (avversari, ma anche compagni di strada) che «non hanno mai lavorato in vita loro» e che «non possono permettersi le barche e le case che esibiscono, dunque non c’è che una spiegazione: rubano». Contro i «politicanti » che arrivò ad attaccare 14 volte in un solo comizio nell’anniversario della «vittoria mutilata» del 1994. Ma come cavalcare, oggi, l’ondata di indignazione popolare contro i costi della politica se c’era la «sua» maggioranza al Senato quando i costi sono cresciuti del 39% oltre l’inflazione e c’era lui a Palazzo Chigi quando il governo spendeva 65 milioni di euro in un anno in voli di Stato, pari a 2.241 biglietti andata e ritorno al giorno Milano-Londra con RyanAir? Come chiamare la gente a imbarcarsi su una nuova «nave di sognatori» (così chiamò un giorno Forza Italia) per dare «nuovo futuro della politica italiana» se a 71 anni suonati è già stato alla guida del governo poco meno di De Gasperi o Andreotti ma già oltre un anno più di Amintore Fanfani, due più di Bettino Craxi, tre più di Mariano Rumor? Insomma: come rinnovare la sua nuova immagine di uomo «nuovo»? Questa è la grande scommessa. Qui deve venir fuori il «mago delle emozioni». Che va a giocarsela da solo, direttamente col «suo» popolo. Certo di conoscerlo come non lo conosce nessuno. E di poterlo convincere: se il cielo non sempre è stato blu, è stata solo colpa degli altri.
Gian Antonio Stella
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