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Da Ginosa al centro di Taranto: il volantinaggio degli operai Miroglio davanti ai negozi del gruppo. «Buttati via dopo 12 anni e sostituiti dai cinesi».
Sfidano la pioggia e il “sistema”. Ieri mattina a Taranto, in via D'Aquino, tra il solito passeggio e l'atteso primo diluvio dopo mesi di siccità, è comparso un gruppo di “miroglini”, volantini in mano e striscioni piazzati davanti ai negozi. Sono una parte di quei 233 lavoratori messi in mobilità da Miroglio, praticamente licenziati da uno dei più grandi gruppi tessili italiani.Vengono soprattutto da Ginosa, lo stabilimento che sta seguendo la strada già riservata tre anni fa all'impianto di Castellaneta: la chiusura, senza se e senza ma. Dalla periferia della provincia ionica al cuore del capoluogo per raccontare le loro storie e provare a cambiarne il finale. Impresa non facile perchè sulle loro teste c'è una pesante spada di Damocle da quando, il 27 ottobre scorso, il Gruppo di Alba ha ufficialmente avviato la procedura. 75 giorni per trovare una soluzione alternativa (ci sono già due aziende disposte a rilevare il pacchetto stabilimento-lavoratori) e giocarsi una chance di sopravvivenza prima sul tavolo provinciale, poi su quello del Ministero del Lavoro, con la Regione pronta a finanziare la riqualificazione professionale. In fondo al tunnel ci sarebbero comunque gli ammortizzatori sociali, ovvero la cassa integrazione straordinaria: ma prendere uno stipendio decurtato standosene a casa non è una consolazione, semmai è una pena accessoria.La realtà di una mattina uggiosa, invece, riporta ad un lampione di via D'Aquino dove c'è appiccicata la fotocopia di un conto corrente: sono i 200mila euro della prima tranche di mobilità anticipati da Miroglio. Il resto (1,6 milioni per nove mensilità) arriverà a spezzoni e per loro, i “miroglini”, sarà un po' come vedersi soffiare il lavoro un po' alla volta. Miroglio, ovviamente, anticipa: il rimborso tocca allo Stato. Come sempre. Come 12 anni fa quando il “sogno” di realizzare un Polo tessile tra la piana di Metaponto e le gravine, da Ginosa a Castellaneta, ha cominciato a prender forma con l'aiuto sostanzioso della mano pubblica che, però, aveva (ed ha) un difetto: finisce col distorcere il mercato cancellando, di fatto, il fattore rischio dal “rischio d'impresa”. E allora resta solo l'impresa, con la sua strategia e i marchi.Per questo ieri mattina sindacalisti e lavoratori si sono piazzati davanti ai negozi Oltre, Elena Mirò e Motivi. «Perchè sono il simbolo - dice Giuseppe Massafra, segretario generale della Filtea Cgil - di quello che sta accadendo e vogliamo che i tarantini lo sappiano e, per fortuna, apprezzano la nostra iniziativa mostrandoci solidarietà».Quei marchi che campeggiano sulle vetrine sono il simbolo di tante cose: lo shopping, la globalizzazione, il marketing, la delocalizzazione. Ma soprattutto di un fatto che, in tempi di crisi, non è un buon segnale: «Sta scomparendo il prodotto - spiega Massafra - da Miroglio, ma più in generale dalle nostre aziende». E con esso, la logica è terribilmente stringente, evapora anche il lavoro. «Ciò che conta è solo il business - spiega Massafra - per cui si compra il prodotto già finito in Cina e lo si rivende nei mille negozi sparsi in tutto il mondo, ovviamente con un prezzo “italiano” e un marchio made in Italy. Oggi, nel settore, sono in tanti a farlo; non c'è solo Miroglio, ma lui ha aperto una strada: prima ha delocalizzato in Bulgaria e ora acquista capi finiti in Cina».A due passi, Massimo Gravina, della rsu aziendale, annuisce: ha 43 anni ed è in Miroglio dalla prima ora. E' uno dei “vecchi”, i lavoratori con i quali Miroglio ha messo su lo stabilimento e lo ha lanciato sino a farlo diventare uno dei più produttivi del gruppo. «Ho cominciato con Miroglio - ricorda - 13 anni fa e dal primo giorno, quando sembrava ci stesse regalando il sogno di un lavoro stabile». Sembra paradossale, ma sta succedendo quello che una giovane lavoratrice racconta ad una passante: «Siamo in mezzo ad una strada dopo aver lavorato 12 anni in uno stabilimento pagato con soldi dei cittadini, vostri e nostri, di tutti».Già ma c'è qualcosa di sinistramente perverso in un'azienda che chiude mentre registra utili: «La verità - nota il sindacalista - è che queste imprese non reagiscono alla crisi migliorando e investendo sul prodotto, ma cercano espedienti per risparmiare sui costi, con tutto ciò che comporta: i licenziamento dei lavoratori, ma anche un problema per chi acquista a prezzo italiano un capo prodotto altrove».Insomma, non si tratta solo di una battaglia sindacale in difesa del lavoro. «No - insiste Massafra - qui ci muoviamo nel campo del sociale, con una visione che va al di là del fatto specifico di Miroglio, ma cerchiamo di render visibile un quadro che è molto più complesso». Il riferimento è presto fatto: «Il polo delle confezioni di Martina è in crisi da un anno ma fa meno rumore rispetto all'impatto che ha Miroglio. Eppure si è passati da 6mila addetti a 3200 in sei anni, con una miriade di piccole e minuscole aziende in crisi: nessuno ne sa nulla, ma il problema è lo stesso di Miroglio. I marchi non danno più lavoro ai contoterzisti perchè acquistano direttamente in Cina: anche da noi, a Martina, è così».Una catastrofe per un mondo che ha ancora molto da dare. I “miroglini”, ad esempio, hanno in media 35 anni: giovani lavoratori, altamente professionalizzati. Vito Ranaldo, 38 anni di Ginosa, è uno di questi. Guarda l'insegna, che è proprio lì davanti, ed esclama: «Ci sentiamo traditi da Miroglio perchè quando abbiamo cominciato eravamo vogliosi di fargli vedere ciò che sapevamo fare e gli abbiamo dato tutto, registrando risultati eccellenti: non lo diciamo noi, ma era lo stesso Miroglio a sostenerlo. Ha puntato tutto sulla nostra voglia di lavorare e adesso se ne frega di noi e va via. Una roba da tagliare le gambe a chiunque. Eppure abbiamo per le mani un mestiere e siamo pronti a impararne un altro se necessario. Quando siamo entrati eravamo ragazzi e ora siamo genitori, abbiamo famiglia e un mutuo da pagare». 12 anni e un lavoro fa: «E pensare - aggiunge - che per i primi sei mesi la formazione ci è stata defalcata dallo stipendio: 400mila lire in meno su un milione. Eppure non ci siamo tirati indietro». Anzi, hanno prodotto tanto e bene: tutti i tipi di tessuto, acrilini, cotone, lino, velluto, lana. Persino Benetton comprava da Ginosa. «Poi ci hanno tolto tutto, prima la produzione ora il lavoro».Nemmeno dieci metri di strada e due anziane signore commentano: «Sentito? Miroglio se ne va di qui per andare a produrre in Cina e così a noi vendono prodotti cinesi: roba da non andarci più in quei negozi...».
I sindacalisti: «Il dramma è che al posto del prodotto e dei lavoratori ora ci sono solo marchi e marketing»
Sfidano la pioggia e il “sistema”. Ieri mattina a Taranto, in via D'Aquino, tra il solito passeggio e l'atteso primo diluvio dopo mesi di siccità, è comparso un gruppo di “miroglini”, volantini in mano e striscioni piazzati davanti ai negozi. Sono una parte di quei 233 lavoratori messi in mobilità da Miroglio, praticamente licenziati da uno dei più grandi gruppi tessili italiani.Vengono soprattutto da Ginosa, lo stabilimento che sta seguendo la strada già riservata tre anni fa all'impianto di Castellaneta: la chiusura, senza se e senza ma. Dalla periferia della provincia ionica al cuore del capoluogo per raccontare le loro storie e provare a cambiarne il finale. Impresa non facile perchè sulle loro teste c'è una pesante spada di Damocle da quando, il 27 ottobre scorso, il Gruppo di Alba ha ufficialmente avviato la procedura. 75 giorni per trovare una soluzione alternativa (ci sono già due aziende disposte a rilevare il pacchetto stabilimento-lavoratori) e giocarsi una chance di sopravvivenza prima sul tavolo provinciale, poi su quello del Ministero del Lavoro, con la Regione pronta a finanziare la riqualificazione professionale. In fondo al tunnel ci sarebbero comunque gli ammortizzatori sociali, ovvero la cassa integrazione straordinaria: ma prendere uno stipendio decurtato standosene a casa non è una consolazione, semmai è una pena accessoria.La realtà di una mattina uggiosa, invece, riporta ad un lampione di via D'Aquino dove c'è appiccicata la fotocopia di un conto corrente: sono i 200mila euro della prima tranche di mobilità anticipati da Miroglio. Il resto (1,6 milioni per nove mensilità) arriverà a spezzoni e per loro, i “miroglini”, sarà un po' come vedersi soffiare il lavoro un po' alla volta. Miroglio, ovviamente, anticipa: il rimborso tocca allo Stato. Come sempre. Come 12 anni fa quando il “sogno” di realizzare un Polo tessile tra la piana di Metaponto e le gravine, da Ginosa a Castellaneta, ha cominciato a prender forma con l'aiuto sostanzioso della mano pubblica che, però, aveva (ed ha) un difetto: finisce col distorcere il mercato cancellando, di fatto, il fattore rischio dal “rischio d'impresa”. E allora resta solo l'impresa, con la sua strategia e i marchi.Per questo ieri mattina sindacalisti e lavoratori si sono piazzati davanti ai negozi Oltre, Elena Mirò e Motivi. «Perchè sono il simbolo - dice Giuseppe Massafra, segretario generale della Filtea Cgil - di quello che sta accadendo e vogliamo che i tarantini lo sappiano e, per fortuna, apprezzano la nostra iniziativa mostrandoci solidarietà».Quei marchi che campeggiano sulle vetrine sono il simbolo di tante cose: lo shopping, la globalizzazione, il marketing, la delocalizzazione. Ma soprattutto di un fatto che, in tempi di crisi, non è un buon segnale: «Sta scomparendo il prodotto - spiega Massafra - da Miroglio, ma più in generale dalle nostre aziende». E con esso, la logica è terribilmente stringente, evapora anche il lavoro. «Ciò che conta è solo il business - spiega Massafra - per cui si compra il prodotto già finito in Cina e lo si rivende nei mille negozi sparsi in tutto il mondo, ovviamente con un prezzo “italiano” e un marchio made in Italy. Oggi, nel settore, sono in tanti a farlo; non c'è solo Miroglio, ma lui ha aperto una strada: prima ha delocalizzato in Bulgaria e ora acquista capi finiti in Cina».A due passi, Massimo Gravina, della rsu aziendale, annuisce: ha 43 anni ed è in Miroglio dalla prima ora. E' uno dei “vecchi”, i lavoratori con i quali Miroglio ha messo su lo stabilimento e lo ha lanciato sino a farlo diventare uno dei più produttivi del gruppo. «Ho cominciato con Miroglio - ricorda - 13 anni fa e dal primo giorno, quando sembrava ci stesse regalando il sogno di un lavoro stabile». Sembra paradossale, ma sta succedendo quello che una giovane lavoratrice racconta ad una passante: «Siamo in mezzo ad una strada dopo aver lavorato 12 anni in uno stabilimento pagato con soldi dei cittadini, vostri e nostri, di tutti».Già ma c'è qualcosa di sinistramente perverso in un'azienda che chiude mentre registra utili: «La verità - nota il sindacalista - è che queste imprese non reagiscono alla crisi migliorando e investendo sul prodotto, ma cercano espedienti per risparmiare sui costi, con tutto ciò che comporta: i licenziamento dei lavoratori, ma anche un problema per chi acquista a prezzo italiano un capo prodotto altrove».Insomma, non si tratta solo di una battaglia sindacale in difesa del lavoro. «No - insiste Massafra - qui ci muoviamo nel campo del sociale, con una visione che va al di là del fatto specifico di Miroglio, ma cerchiamo di render visibile un quadro che è molto più complesso». Il riferimento è presto fatto: «Il polo delle confezioni di Martina è in crisi da un anno ma fa meno rumore rispetto all'impatto che ha Miroglio. Eppure si è passati da 6mila addetti a 3200 in sei anni, con una miriade di piccole e minuscole aziende in crisi: nessuno ne sa nulla, ma il problema è lo stesso di Miroglio. I marchi non danno più lavoro ai contoterzisti perchè acquistano direttamente in Cina: anche da noi, a Martina, è così».Una catastrofe per un mondo che ha ancora molto da dare. I “miroglini”, ad esempio, hanno in media 35 anni: giovani lavoratori, altamente professionalizzati. Vito Ranaldo, 38 anni di Ginosa, è uno di questi. Guarda l'insegna, che è proprio lì davanti, ed esclama: «Ci sentiamo traditi da Miroglio perchè quando abbiamo cominciato eravamo vogliosi di fargli vedere ciò che sapevamo fare e gli abbiamo dato tutto, registrando risultati eccellenti: non lo diciamo noi, ma era lo stesso Miroglio a sostenerlo. Ha puntato tutto sulla nostra voglia di lavorare e adesso se ne frega di noi e va via. Una roba da tagliare le gambe a chiunque. Eppure abbiamo per le mani un mestiere e siamo pronti a impararne un altro se necessario. Quando siamo entrati eravamo ragazzi e ora siamo genitori, abbiamo famiglia e un mutuo da pagare». 12 anni e un lavoro fa: «E pensare - aggiunge - che per i primi sei mesi la formazione ci è stata defalcata dallo stipendio: 400mila lire in meno su un milione. Eppure non ci siamo tirati indietro». Anzi, hanno prodotto tanto e bene: tutti i tipi di tessuto, acrilini, cotone, lino, velluto, lana. Persino Benetton comprava da Ginosa. «Poi ci hanno tolto tutto, prima la produzione ora il lavoro».Nemmeno dieci metri di strada e due anziane signore commentano: «Sentito? Miroglio se ne va di qui per andare a produrre in Cina e così a noi vendono prodotti cinesi: roba da non andarci più in quei negozi...».
dal Corriere del Giorno di Massimo D’Onofrio
2 commenti:
A Laterza c'e' un negozio proprio in piazza!
Giacomo
Certo, è una situazione drammatica, veramente drammatica. E tragica, allo stesso tempo. Cerchiamo di riflettere, però. Io non conosco la realtà Miroglio (mi occupo di altro settore) ma da quel che ho capito l'articolo dice: a) Miroglio ha avuto i soldi dallo Stato per aprire una unità da noi, magari contando sul polo tessile b) Ha avuto i soldi ed ha prodotto roba per tutto il mondo c) Dopo 13 anni, finiti i suoi obblighi (penso) ha deciso di andare a produrre altrove, dove i costi sono minori. Questo può accadere solo se i ricavi ottenuti vendendo i prodotti non coprono i costi sostenuti in quello stabilimento. Il problema diventa di management, secondo me: scarsa innovazione sulla qualità del prodotto per vincere la concorrenza non sui costi ma sulla qualità. E' possibile farlo, non ci sono dubbi. L'azienda non lo ha fatto, e ci si ritrova in questa situazione. Le persone prima sono state elogiate per la loro efficienza poi, quando questa non serviva più, arrivederci e grazie. Mi chiedo: gli amministratori che devono di erogare perchè non pongono vincoli di ricerca decennali su chi deve aprire lo stabilimento? magari incentivando i brevetti o le innovazioni, non solo i miglioramenti di efficienza? Così queste situazioni si eviterebbero. Ma la colpa, ripeto, è del management. Solo di quello.
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