![](http://1.bp.blogspot.com/_qTKJ-vMKT4E/SWIKGPjARfI/AAAAAAAAASQ/okPlALDysc0/s320/piu-sud.jpg)
Bossi ha ottenuto la corsia preferenziale. Si comincerà con la riforma che sta a cuore alla Lega: i soldi dei contribuenti devono essere gestiti sul territorio da Regioni, Province e Comuni. Almeno a parole, il federalismo fiscale ha ottenuto il primo successo: la quadratura del cerchio. Al Nord, infatti, viene garantito che resteranno più quattrini nelle loro regioni. Al Sud viene assicurato che i suoi enti locali non perderanno un euro. Come sarà un possibile realizzare un miracolo, che riuscirebbe difficile persino ad un’autorità divina, nessuno lo spiega. A meno che, ciclicamente, non si torni a chiedere ai contribuenti di rimettere mano al portafogli.
Due economisti di scuola liberista - Piercamillo Falasca e Carlo Lottieri - hanno di recente dato alle stampe un libro, edito da Rubettino, il cui titolo non ha bisogno di esegesi: «Come il federalismo fiscale può salvare il Mezzogiorno». La tesi dei due autori si può riassumere così: basta con l’assistenzialismo e la logica della perequazione, gli aiuti al Sud finora hanno premiato solo una minoranza ben rappresentata, il Mezzogiorno ha bisogno di autonomia e responsabilità, il ceto politico meridionale deve dare conto direttamente ai cittadini di come spende le risorse ricavate dalla tassazione.
Sulla carta il ragionamento non fa una piega: «Pago, vedo, voto». Sulla carta. In realtà, quanti fra gli elettori saprebbero districarsi tra le competenze che spettano ai vari enti, dalle comunità montane alle Regioni, dalle Province ai Comuni e valutare di conseguenza l’operato degli eletti?
Gli stessi esperti avrebbero difficoltà ad orientarsi in un labirinto istituzionale più complicato di un brano di Tacito (55-117 dopo Cristo).
Ma Falasca e Lottieri vanno oltre: anziché chiedere una maggiore redistribuzione a loro favore, la classe politica e l’opinione pubblica meridionale dovrebbero accettare la sfida tra territori, rinunciare allo status quo e proporre al Centro-Nord uno scambio di questo tipo: alla riforma federale e all’abolizione di ogni sussidio deve accompagnarsi l’abbattimento generalizzato e per dieci anni dell’imposta sul reddito di impresa per chi investe al Sud. Il costo per l’erario, per i due saggisti, sarebbe sostenibile: si creerebbero quelle condizioni favorevoli allo sviluppo rincorse invano per 50 anni, il Mezzogiorno si trasformerebbe in una «tigre mediterannea» in grado di azzannare e spaventare chiunque. Tutto può essere. Anche se la storia economica è un oceano di terapie e previsioni sbagliate. Ma non è questo il punto.
Il federalismo fiscale comporterà inevitabilmente un aumento dei poteri delle classi dirigenti locali. Domanda: sono all’altezza, sul piano culturale oltre che politico, le nomenklature territoriali di favorire lo sviluppo senza mortificare il mercato e la trasparenza? Il caso Romeo, la cui tipologia non costituisce un’esclusiva campana, indurrebbe a credere il contrario. Le ultime inchieste sulla corruzione non sconcertano tanto per i loro risvolti penali quanto per le scoperte delle nuove frontiere che, diciamo così, hanno raggiunto i rapporti fra amministrazioni locali e imprese. Non si capisce chi guidi le danze, se siano certe imprese a pilotare le amministrazioni o certe amministrazioni a eterodirigere le imprese.
L’impressione è che parecchi amministratori locali puntino a divenire i suggeritori esterni, i manager occulti, i faccendieri clandestini di certe imprese. Non sempre è l’imprenditore a proporre l’«affare». A volte è direttamente il politico o il burocrate influente. A leggere le carte di alcuni processi si direbbe che il mestiere di alcuni amministratori consista, in prevalenza, nel procurare consulenze agli amici e nell’offrire «dritte», su cui lucrare copiose provvigioni, alle imprese disposte a «cooperare». Se poi le opere realizzate si riveleranno inutili, oltre che ipercostose, o richiederanno nuovi salassi sulla pelle dei già tassati, poco importa. Tanto, chi saprebbe indicare la gerarchia delle responsabilità?
In questo scenario, ritenere che il federalismo fiscale possa rendere più efficienti le istituzioni è come credere che l’interista Adriano rinuncerà alla vita notturna: è solo un atto di fede. Ma la politica non può procedere col «vediamo che succede». La premessa della rivoluzione federale è una classe dirigente educata alla cultura del buongoverno (a cominciare, anche, dalla soppressione di enti inutili come le Province). Ma se la classe dirigente rema in tutt’altra direzione, un obiettivo teoricamente condivisibile come il federalismo fiscale rischia di produrre un rimedio peggiore del male. Altro che Sud tigre del Mediterraneo.
Due economisti di scuola liberista - Piercamillo Falasca e Carlo Lottieri - hanno di recente dato alle stampe un libro, edito da Rubettino, il cui titolo non ha bisogno di esegesi: «Come il federalismo fiscale può salvare il Mezzogiorno». La tesi dei due autori si può riassumere così: basta con l’assistenzialismo e la logica della perequazione, gli aiuti al Sud finora hanno premiato solo una minoranza ben rappresentata, il Mezzogiorno ha bisogno di autonomia e responsabilità, il ceto politico meridionale deve dare conto direttamente ai cittadini di come spende le risorse ricavate dalla tassazione.
Sulla carta il ragionamento non fa una piega: «Pago, vedo, voto». Sulla carta. In realtà, quanti fra gli elettori saprebbero districarsi tra le competenze che spettano ai vari enti, dalle comunità montane alle Regioni, dalle Province ai Comuni e valutare di conseguenza l’operato degli eletti?
Gli stessi esperti avrebbero difficoltà ad orientarsi in un labirinto istituzionale più complicato di un brano di Tacito (55-117 dopo Cristo).
Ma Falasca e Lottieri vanno oltre: anziché chiedere una maggiore redistribuzione a loro favore, la classe politica e l’opinione pubblica meridionale dovrebbero accettare la sfida tra territori, rinunciare allo status quo e proporre al Centro-Nord uno scambio di questo tipo: alla riforma federale e all’abolizione di ogni sussidio deve accompagnarsi l’abbattimento generalizzato e per dieci anni dell’imposta sul reddito di impresa per chi investe al Sud. Il costo per l’erario, per i due saggisti, sarebbe sostenibile: si creerebbero quelle condizioni favorevoli allo sviluppo rincorse invano per 50 anni, il Mezzogiorno si trasformerebbe in una «tigre mediterannea» in grado di azzannare e spaventare chiunque. Tutto può essere. Anche se la storia economica è un oceano di terapie e previsioni sbagliate. Ma non è questo il punto.
Il federalismo fiscale comporterà inevitabilmente un aumento dei poteri delle classi dirigenti locali. Domanda: sono all’altezza, sul piano culturale oltre che politico, le nomenklature territoriali di favorire lo sviluppo senza mortificare il mercato e la trasparenza? Il caso Romeo, la cui tipologia non costituisce un’esclusiva campana, indurrebbe a credere il contrario. Le ultime inchieste sulla corruzione non sconcertano tanto per i loro risvolti penali quanto per le scoperte delle nuove frontiere che, diciamo così, hanno raggiunto i rapporti fra amministrazioni locali e imprese. Non si capisce chi guidi le danze, se siano certe imprese a pilotare le amministrazioni o certe amministrazioni a eterodirigere le imprese.
L’impressione è che parecchi amministratori locali puntino a divenire i suggeritori esterni, i manager occulti, i faccendieri clandestini di certe imprese. Non sempre è l’imprenditore a proporre l’«affare». A volte è direttamente il politico o il burocrate influente. A leggere le carte di alcuni processi si direbbe che il mestiere di alcuni amministratori consista, in prevalenza, nel procurare consulenze agli amici e nell’offrire «dritte», su cui lucrare copiose provvigioni, alle imprese disposte a «cooperare». Se poi le opere realizzate si riveleranno inutili, oltre che ipercostose, o richiederanno nuovi salassi sulla pelle dei già tassati, poco importa. Tanto, chi saprebbe indicare la gerarchia delle responsabilità?
In questo scenario, ritenere che il federalismo fiscale possa rendere più efficienti le istituzioni è come credere che l’interista Adriano rinuncerà alla vita notturna: è solo un atto di fede. Ma la politica non può procedere col «vediamo che succede». La premessa della rivoluzione federale è una classe dirigente educata alla cultura del buongoverno (a cominciare, anche, dalla soppressione di enti inutili come le Province). Ma se la classe dirigente rema in tutt’altra direzione, un obiettivo teoricamente condivisibile come il federalismo fiscale rischia di produrre un rimedio peggiore del male. Altro che Sud tigre del Mediterraneo.
di Giuseppe De Tomaso - gazzetta del mezzogiorno
Nessun commento:
Posta un commento