giovedì 8 gennaio 2009

Ne vale la pena?

Molti lettori mi hanno chiesto "che fare?" dinanzi alle tante cose che non vanno e alle tante storture che anche su questo blog raccontiamo.

Dietro questa domanda in alcuni casi se ne nasconde con evidenza un'altra: "A che serve questo che state facendo?" E anche: "Ma vale la pena impegnarsi se poi le cose non cambiano?"
Accade spesso che gli esseri umani, col senno del poi, si pongano la più banale e usuale delle domande: ne è valsa la pena?

Scrive Aristotele: “Nello stesso tempo uno vede e ha veduto, conosce e ha conosciuto, pensa e ha pensato, mentre non può imparare e aver imparato, né guarire e essere guarito”.
La frase potrebbe apparire contorta e priva di senso, se non fosse che essa coglie una differenza di fondo nell’agire umano: da una parte le azioni che non sono dirette a “produrre”, ma consistono in un “attivarsi” della propria natura (praxis), dall’altra quelle che sono dirette a “produrre” (poiesis).
Sulla scia del pensiero antico, un profondo filosofo contemporaneo, prematuramente scomparso, così si esprime: “La prassi etica è dunque prima ancora che un fare, un essere; anche se è un essere che si deve continuamente fare” (F. Calvo).
Dunque l’etica spinge a fare, ma, per dir così, questo fare segue l’interrogativo seguente: “Cosa fare in quanto uomo?”, dove il “fare” è, all’evidenza, frutto del mantenersi nell’orizzonte della propria natura: l’attuarsi della propria natura. Il nostro essere – afferma Aristotele – è un “cammino verso la natura”.
Ecco dunque che l’attivarsi della propria natura segue regole del tutto diverse dal “fabbricare” qualcosa al di fuori di sé (o anche in sé). Credo bisogni sempre aver davanti agli occhi, come una stella polare, la summa divisio cui sopra accennavo: da una parte la poiesis, dall’altra la praxis.
Da una parte c’è il produrre, il fare, insomma c’è tutto quello che giustifica il porre, da parte nostra, la risposta all’interrogativo di sempre: ne è valsa la pena? C’è stata un’utilità? A che pro infatti vendere scarpe se nessuno le acquista?
Ma, dall’altra parte, c’è quella che gli antichi chiamavano praxis: l’attivare la propria natura o, per dirla, colloquialmente, l’agire da uomini: fare esattamente ciò che un uomo, in quanto tale, è chiamato a fare in determinate circostanze.
Soprattutto nella contingenza delle umane vicende l’uomo è chiamato, nelle scelte, a scoprire il suo esser-uomo.
Non a caso, posiamo distinguere due generi di norme: quelle che hanno senso a condizione di reciprocità (che senso ha “tenere la destra” in un città dove ogni veicolo circola come meglio gli aggrada?); quelle che rendono ossequio alla propria natura e alla quali l’ossequio è prestato per rispettare se stessi, anche se il resto del mondo fosse così sventurato da tradire la propria natura (è dunque ben fortunato chi non ruba in un mondo dove i più rubano!).

Sia detto tra parentesi, questo modo di vedere le cose, consente di controbattere (almeno così mi illudo) affermazioni del tipo “solo i fessi non rubano” o “è meglio gestite una pizzeria che studiare”, etc etc.
Dunque, al quesito “ne è valsa la pena?” rispondo così: nell’assalto alla torta, nel degrado del bene comune, nel lievitare dei privilegi, nel trionfo della menzogna organizzata, abbiamo fatto ciò che ogni uomo, in quanto tale, è chiamato a fare: ci siamo opposti sine spe nec metu.
Non avremmo potuto conservare la nostra dignità chiudendo occhi, orecchi e bocca. Punto.
Fossimo rimasti in due a farlo, lo avremmo fatto. Ma c’è dell’altro.
C’è che forse, a ben vedere, oltre che soddisfare le esigenze della praxis, abbiamo anche messo in atto un po’ di poiesis: oltre che a essere noi stessi, abbiamo anche “fabbricato” qualcosa, non siamo rimasti a mani vuote: è iniziato un pubblico dibattito sul correntismo; si è posto il tema della libertà di espressione nei gruppi (di più: lo si è posto a parametro di giudizio quanto alla “bontà” di un gruppo); è in atto, da parte nostra, un confronto serio e leale con la “società civile” (questo blog ne è prova lampante).
Certo, sono d’accordissimo: occorre avere ben presenti le ragioni del “fare” e si deve fare - dobbiamo fare - molto di più. E’ su questo “di più” che si sta meditando.
Ma non demoralizziamoci: abbiamo seminato e piantato alcune tenere piante: non sono questi tempi in cui raccogliere frutti. Sono tempi di semina tenace più che di gioiosa raccolta; di speranza più che di consolazione: speranze rafforzate dalla coscienza di esserci comportati da uomini liberi.
E scusate se è poco.



Davide

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