Per me è un esercizio utile ed è per questo che ho trascritto il mio intervento per condividere e confrontarmi al fine di capire cosa è accaduto, da dove ripartiamo e qual è il percorso da fare.
Il risultato elettorale può essere esaminato e scomposto su tre livelli: elettorale, politico, e culturale. Sul piano elettorale la sconfitta è netta e preoccupante, il baricentro del consenso si è spostato fortemente a destra. Sul piano politico siamo caduti in piedi, soprattutto grazie alla novità Veltroni, perché la nostra proposta ha una prospettiva più lunga e con il passare tempo sarà più comprensibile. Sul piano culturale si è notato uno sfasamento tra il Pd e la società italiana, riusciamo ad interagire solo con una parte, D’Alema dice sono con l’elite che legge i giornali, e facciamo fatica a relazionarci con interi classi di elettorato: donne, operai, pensionati e giovani. L’egemonia culturale della sinistra, quella famosa degli anni ’70, si è esaurita perché la parcellizzazione della società italiana fa emergere gli aspetti localistici e individuali come priorità degli elettori. In questo contesto
La verità è che abbiamo perso in tutta Italia, eccetto nelle zone storicamente rosse, ma abbiamo perso soprattutto al Sud, in particolare in Campania e Puglia.
In Puglia la coalizione di centrosinistra perde l’8% tra il 2006 e il 2008, un chiaro ed inequivocabile segnale per il governo regionale.
Nella provincia di Taranto il centrosinistra tra il 2006 e il 2008 perde il 7%, sommando tutta la coalizione che governa la provincia di Taranto stentiamo ad arrivare al 42%. In provincia di Taranto, malgrado i proclami da “sconfitta vincente” di molti che mi hanno preceduto, il PD prende meno dell’Ulivo del 2006: da 113.750 passiamo a 110.873 voti. Ci sono stati in valore assoluto 2.873 elettori in meno.
A Taranto città, un risultato super enfatizzato, il Pd prende 39.254 voti mentre l’Ulivo (Ds+Margherita) prese 41.930 voti con una perdita secca di 2.406 voti che rappresenta l’84% d tutti i voti persi nella provincia. Sicuramente ha influito l’astensione ma non possiamo no ricordare il dissesto del centrodestra, le votazioni comunali del 2007 con il ballottaggio di 2 candidati di centro-sinistra e la scarsa rappresentanza in Consiglio Comunale del Pdl.
Come hanno potuto i tarantini dimenticare così in fretta il malgoverno del centrodestra?
Dopo questo esito elettorale io avverto due pericoli che sono emersi anche all’interno del nostro dibattito. L’atteggiamento di chi fa finta di niente continuando a far apparire il Re vestito (mentre i dati dicono che è nudo) e tacciando tutti coloro che si permettono di criticare (brutto comportamento per un partito che si chiama democratico). L’altro pericolo che inizia a serpeggiare è lo scoramento e la voglia di rinunciare che in alcuni interventi, e soprattutto nelle molte assenze, è manifestato. Non abbiamo molto tempo, ci aspettano 22 mesi di campagna elettorale, bisogna iniziare a costruire il Partito Democratico Jonico che sinora è stato solo costituito.
Quali le priorità:
- Creare l’organizzazione del partito che deve far leva su un coordinamento permanente di tutti i segretari cittadini e sulla filiera degli eletti: comunali, provinciali e regionali.
- Identità e Programma per noi non possono essere un optional perché governiamo Provincia e Regione. Dobbiamo dare risposte serie sulla qualità dello sviluppo, sulla lotta agli sprechi e ai privilegi, sulla capacità di far funzionare le istituzioni.
- Atteggiamento, dobbiamo velocemente abbondare e superare i personalismi solo cosi possiamo essere credibili al cospetto degli elettori. Siamo percepiti come classe dirigente autoreferenziale e con troppi dirigenti, senza mestiere, che vivono di politica. Un bagno di umiltà ci farebbe solo bene.
Il Pd Jonico per crescere deve superare le logiche della conta e spartizione delle culture del passato (correnti della Margherita e correnti dei DS) che oramai sono superate ed inutili perché quel ciclo politico si è chiuso.
Possiamo diventare maggioranza di questa provincia e regione se già dalle decisioni di questa sera e quelle future teniamo ben presenti quali sono le coordinate per organizzarsi e radicarsi: MERITO, COMPETENZA E CONSENSO.
Il merito per premiare le persone che lavorano con passione e lo spirito di servizio verso le proprie comunità.
La Competenza
Il Consenso che sembra smarrito dopo il 14 ottobre, perché i leader senza seguaci possono solo farci perdere tempo ed elezioni.
Intervento trascritto di Franco Catapano
Assemblea Pd Jonico 19 maggio 2008
P.S.
L’epilogo dell’assemblea, mio malgrado, è stato totalmente diverso dalle mie aspettative: merito, competenze e consenso sono stati ancora una volta sacrificati dal vassallaggio politico.
E’ stato nominato un esecutivo di circa 30 persone che non è rappresentativo dei territori (in caso contrario ci sarebbero dovuti stare i coordinatori dei circoli cittadini democraticamente eletti a livello comunale).
Sono stati nominati una quindicina di responsabili di dipartimento (molto inusuale che un partito organizzi la sua elaborazione politica frammentando le tematiche di approfondimento). Per la cronaca ho rifiutato la nomina di responsabile del "dipartimento agricoltura", avevo già comunicato la mia indisponibilità al segretario provinciale, e mi sono astenuto sulla nomina dell'esecutivo e dei dipartimenti.
4 commenti:
Voler Pensare e' Poter Cambiare
Insomma la strada è tutta in salita e bisogna ricominciare dal fissare parole d’ordine chiare:
valore del partito, democrazia interna e ispirazione riformista. Ma più di tutto il Pd deve tornare
ad avere “canali di rappresentanza e non di rappresentazione della società: candidare un
operaio non basta per rappresentare gli operai. C’è bisogno di riaprire canali di dialogo con
i singoli segmenti della società e favorire la formazione di una loro leadership autonoma che
poi contribuisca alla definizione complessiva delle linee del partito”.
Solo in questo modo il Pd potrà sperare di dotarsi di una proposta politica moderna e autenticamente
riformista, cosa che nelle ultime elezioni evidentemente non è accaduta. Anzi queste
elezioni dimostrano come la destra sia stata moderna e contemporanea molto più della
sinistra, esprimendo un’insolita capacità di rielaborazione e di adattamento al nuovo. Insomma,mentre il Pd riproponeva l’agenda Giavazzi, un’idea da anni 90, il Pdl rielaborava un’idea di globalizzazione
e una visione del paese molto più attuale ed efficace. Proprio per questo quindi
“chi riduce la vittoria della destra alla strumentalizzazione delle paure degli italiani non coglie
il vero dato di base e cioè che Berlusconi, con un’abile politica di alleanze, è stato in grado di
rispondere alla percezione del declino del paese, coniugando un impianto nazionale ad uno
locale, mentre la proposta del Pd non è riuscita a coniugare futuro e sicurezza”.
Certo sul fallimento della sinistra hanno pesato gli errori commessi al governo: manovre fiscali
sbagliate, finanziarie mastodontiche, tesoretto, ma soprattutto la riproposizione di quella
politica dei due tempi che aveva già creato problemi a Prodi nel 9 8. Anche qui però la ragione
dell’insuccesso è più profonda e deriva da una semplice constatazione: la sinistra non si è accorta
di aver pareggiato le elezioni e con la sua solita “arroganza tecnocratica” ha pensato di
poter dirigere il paese in maniera autosufficiente.
Contro l’elitismo
Ed eccoci allora al cuore del problema, all’elemento più preoccupante e persistente tra i mali
della sinistra: l’elitismo. Un problema culturale e antropologico che riguarda almeno i due terzi
della classe dirigente del Pd. Il pezzo di matrice post-comunista infatti è per lo più formato da
“personale di matrice sessantottina, di ceto medio riflessivo, cioè di studenti universitari che
ad un certo punto hanno lasciato gli studi e hanno iniziato il cursus honorum nelle organizzazioni
giovanili di partito diventando poi funzionari. Si tratta di personale politico strutturalmente
privo di legami con la società”.
La situazione non migliora se si considera quel pezzo di classe dirigente di matrice tecnocratica,
generalmente riunita attorno a Prodi, che pur vantando un bagaglio formativo assolutamente
eccezionale, frutto di una formazione rigorosa nel settore dell’economia mista italiana,
è tuttavia completamente privo di qualsivoglia radicamento territoriale.
Riflessione a parte va fatta per il terzo pezzo, quello ex-democristiano di ispirazione popolare,
che “inspiegabilmente non è ancora riuscito a far emergere le grandi risorse di rappresentanza
che pure ha sempre avuto”. Il fatto che il Pd abbia guadagnato voti a sinistra perdendone al
centro è un fatto che conferma questa anomalia.
Superare questo stato di cose è assolutamente necessario ma Gualtieri chiarisce che “la rimozione
della vecchia classe dirigente non è una strada percorribile”. Piuttosto è indispensabile
creare le condizioni per una vera e propria irruzione dal basso, che rompa i meccanismi di
cooptazione attraverso i quali le classi dirigenti riproducono all’infinito i propri difetti.
Quindi basta con la classe dirigente professionista e graduata nel cursus honorum, con corredo
di mazzetta di giornale sotto braccio e appuntamento pomeridiano da Feltrinelli. C’è bisogno
di una svolta radicale: “smettere i panni di quelli belli, fighetti e buoni e diventare brutti,
sporchi e cattivi. Insomma un bagno di nazionalpopolare, quello vero”.
Riprendere contatto con la realtà
Per fare questo è necessario anzitutto mettere da parte l’idea della società liquida, individualista
e atomizzata dove ognuno dà retta solo alla tv. La società di oggi è formata invece “da
una miriade di corpi intermedi, associazioni, reti complesse, gruppi formali e informali, corporazioni”.
A tutti questi gruppi non si può semplicemente chiedere di sottoporsi alla frusta
del mercato perché si scatenerebbe solo rabbia e frustrazione ma c’è bisogno di dialogo e di
legittimazione reciproca. In questo senso “va recuperato il collateralismo che è il cuore del
modello di sussidiarietà proprio delle società europee”.
Non è vero dunque che non ci siano copri intermedi con cui dialogare e non è vero che sia
impossibile produrre convergenze tra di essi: tutto dipende dalla qualità della proposta politica
che si mette in campo che deve essere pragmatica e priva di schematismi preconcetti.
Le primarie “possono essere uno strumento di questo percorso solo a patto che non siano
l’unico e che non se ne faccia un’ideologia”.
In più è assolutamente necessario “mettere da parte l’idea che tutto sia politica: gusti, cibi, stili,
musica, perché bisogna cominciare anche a riconoscere i limiti del discorso politico”. Quindi
ognuno legga quel che vuole, mangi ciò che gli piace e veda i film che preferisce.
Tutto questo sembra difficile da fare, è vero, ma il Pd ce la può fare. Se non per convinzione,
almeno per spirito di sopravvivenza.
Spirito di servizio». Non c’è deputato o senatore, ministro o sottosegretario, che non giuri con tono solenne di far politica solo per questo: «Spirito di servizio». Manco fossero tutti emuli di Alcide De Gasperi che per andare alla Casa Bianca si fece prestare il cappotto da Attilio Piccioni. Sarà... Ma i numeri dicono che l’elezione al Parlamento ha sempre meritato il «cin cin» con lo spumante migliore: coincideva infatti con un aumento medio del reddito personale del 78%. A Roma! A Roma!
Oddio, una volta era un po’ diverso. Nel 1983, un quarto di secolo fa, chi sbarcava a Montecitorio o a Palazzo Madama vedeva i suoi guadagni salire mediamente del 33%. Un incremento buono, ma ridicolo rispetto alla botta di vita dei successori. Chi diventò parlamentare nel 1996 si ritrovò in tasca, in media, addirittura il 109,2 per cento in più di quanto aveva dichiarato l’anno precedente. Al punto che, dopo aver assaggiato tutte le leccornie del Palazzo, quelli che hanno via via deciso per loro scelta (e non perché trombati) di tornare al mestiere di prima sono diventati più rari del dugongo. Perfino gli imprenditori, una volta «discesi in campo», scelgono nella misura del 37% di lasciar perdere quanto facevano per restare sui diletti scranni. Per non dire dei medici (che decidono di rimanere in politica e non rientrare nei reparti o negli ambulatori nel 45% dei casi), dei giornalisti (44%), degli autonomi (49%), degli operai (61%) o dei rappresentanti di categorie professionali: solo uno su cinque rientra nell’ufficio da cui proveniva, sei su dieci si avvinghiano al seggio e non lo mollano più.
Lo dice la ricerca formidabile di un gruppo di economisti: Antonio Merlo, della University of Pennsylvania, Vincenzo Galasso della Bocconi, Massimiliano Landi della Singapore Management University e Andrea Mattozzi del California Institute of Technology. Si intitola «Il mercato del lavoro dei politici » e accenderà sabato mattina il dibattito, a Gaeta, sul tema «La selezione della classe dirigente ». Un convegno promosso dalla «Fondazione Rodolfo Debenedetti» che ruoterà poi intorno all’altra metà del tema, vale a dire «La classe dirigente imprenditoriale», studiata da Luigi Guiso, dell’Istituto Universitario Europeo, insieme con tre docenti della London School of Economics, Oriana Bandiera, Andrea Prat e Raffaella Sadun.
Un dato: la «fedeltà» alla famiglia proprietaria dell’azienda conta così tanto, da noi, da rovesciare il rapporto che vale in tutto l’Occidente, dove contano i risultati: da uno a tre a tre a uno. Un altro: dei manager italiani, quelli che lavorano in Lombardia sono il 42%, nel Sud il 5. Una sproporzione apocalittica. Che preannuncia un futuro di nuvoloni neri neri.
Ma torniamo ai politici. Dice la ricerca, coordinata come l’altra da Tito Boeri, il docente della Bocconi animatore de «lavoce. info», che prendendo in esame tutti gli eletti dal 1948 al 2007 non ci sono dubbi: la classe parlamentare della Prima Repubblica era nettamente migliore. Certo, la percentuale di donne è nei decenni triplicata, pure restando lontana da quella dei paesi europei più avanzati. Ma il livello qualitativo, per non dire della «freschezza» generazionale, si è drammaticamente abbassato: «I nuovi deputati erano più giovani e più istruiti durante la prima repubblica. L’età media in cui si entrava in parlamento era di 44,7 anni, contro i 48,1 anni della Seconda. La percentuale dei nuovi eletti in possesso di una laurea è significativamente diminuita nel corso del tempo: dal 91,4% nella I Legislatura, al 64,6% all’inizio della XV Legislatura».
Un crollo di 27 punti. Che risulta ancora più vistoso e preoccupante nei confronti internazionali. Come quello con gli Stati Uniti dove, al contrario, i laureati presenti in Parlamento sono saliti dall’88% al 94%. Trenta punti sopra di noi. C’è poi da stupirsi che l’università (e non parliamo della scuola) sia sprofondata nel pressoché totale disinteresse dei governi al punto che nelle classifiche internazionali del Times di Londra e della «Shanghai Jiao Tong University» non riusciamo a piazzare un solo ateneo tra i primi cento e neppure uno del Mezzogiorno nei primi trecento?
Scrivono Merlo e i suoi colleghi che quasi due parlamentari su tre «rimangono in Parlamento per più di una legislatura, anche se solo uno su dieci vi rimane per più di 20 anni» e che «dopo l’uscita, il 6% va in pensione, quasi il 3% in carcere, ma quasi uno su due rimane in politica». Spiegano inoltre che, per quanto siano difficili questi calcoli, alcuni «indicatori di qualità » (e cioè il livello d’istruzione, il grado di assenteismo e la «abilità intrinseca di generare reddito nel mercato del lavoro») consentono di affermare non solo, come si diceva, che la classe politica attuale è più scarsa di quella precedente al 1993. Ma che la statura dei nostri parlamentari d’oggi è inferiore anche professionalmente, nella vita privata, a quella dei loro predecessori. Quelli, nei loro mestieri da «civili», stavano tutti (dalla Dc al Msi, dal Psi al Pci) al di sopra della media nelle rispettive professioni. Questi, con la sola eccezione di Forza Italia (+0,04) stanno mediamente al di sotto.
Eppure, via via che calava la loro statura culturale, politica, manageriale, sono stati sempre più benedetti da un acquazzone di denaro. Quante volte ci siamo sentiti dire «faccio politica per passione perché economicamente guadagnavo di più prima»? Falso. Dati alla mano, quelli che nella Prima Repubblica ci perdevano a fare il deputato anziché il medico, il notaio o l’avvocato erano il 24% dei democristiani, il 21% dei socialisti, il 19% dei repubblicani... Oggi sono solo il 15% degli azzurri, l’11% degli ulivisti, l’8% dei neo-democristiani, il 6% dei nazional-alleati. Gli altri, a partire dai rifondaroli per finire ai leghisti, ci guadagnano e basta. E tanto.
Dal 1985 al 2004, dice la ricerca curata dal gruppo che ruota intorno a «lavoce.info», l’approdo sugli scranni delle Camere «è stato particolarmente redditizio. Infatti, il reddito reale annuale di un parlamentare è cresciuto tra 5 e 8 volte più del reddito reale annuale medio di un operaio, tra 3,8 e 6 volte quello di un impiegato, e tra 3 e 4 volte quello di un dirigente». Di più: grazie alla possibilità di cumulare altri lavori, esclusa salvo eccezioni in paesi seri come gli Stati Uniti, «dalla fine degli anni ‘90, il 25% dei parlamentari guadagna un reddito extraparlamentare annuale che è superiore al reddito della maggioranza dei dirigenti». Quanto al «prodotto», lasciamo stare. È così scarso, rispetto alle remunerazioni, da aver creato un paradosso. Forse, ironizzano gli economisti, è per colpa dell’ «aumento dell’indennità parlamentare che ha portato in Parlamento persone le cui maggiori competenze erano altrove nel mercato del lavoro, ma non in politica ». Un gentile eufemismo per non parlare di certi somari incapaci di fare qualunque altro mestiere se non quello del politico a tempo pieno. Certo è, suggeriscono, che «per ridurre quest’effetto di selezione avversa si potrebbe eliminare il cumulo dei redditi dei parlamentari con gli altri redditi, come già avviene negli Stati Uniti, e indicizzare l’indennità parlamentare al tasso di crescita dell’economia. Ciò consentirebbe anche di aumentare l’impegno parlamentare dei deputati, poiché in media ogni 10.000 euro di extra reddito si riduce la partecipazione in Parlamento dell’1%». Avete letto bene: chi col secondo mestiere prende 50mila euro in più lavora il 5% in meno, chi ne guadagna 100mila il 10% e così via. Morale: vuoi vedere che per far lavorare di più certi assenteisti cronici occorre farli guadagnare di meno?
Il Pd Laterza, per cui non è rappresentato nell'esecutivo provinciale. Ci sono Ginosa, Castellaneta, Palagiano, Mottola e Massafra probabilmente è meglio così un esecutivo così largo presuppone che non decide niente perchè decidono i soliti noti ...... forse i solerti costruttori di sconfitte elettorali.
Gianni
Caro Franco, ho letto con interesse, condividendone i contenuti, il tuo intervento.
Al tuo P.S. aggiungo, da dilettante "appassionato" seguace di cose politiche e ...partigiano (sono pur sempre, nel bene e nel mare un elettore PD), che spero tu non ti defili facendo occupare da scialbe od interessate figure (...figuri) posizioni che, gente che io considero di valore come te, non accettano di ricoprire.
Considerato che hai voce in simili consessi, non diventare afono.
Un abbraccio ed un affettuoso saluto.
Mimmo
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