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Solo in questo modo il Pd potrà sperare di dotarsi di una proposta politica moderna e autenticamente riformista, cosa che nelle ultime elezioni evidentemente non è accaduta. Anzi queste elezioni dimostrano come la destra sia stata moderna e contemporanea molto più della sinistra, esprimendo un’insolita capacità di rielaborazione e di adattamento al nuovo. Insomma,mentre il Pd riproponeva l’agenda Giavazzi, un’idea da anni 90, il Pdl rielaborava un’idea di globalizzazionee una visione del paese molto più attuale ed efficace. Proprio per questo quindi “chi riduce la vittoria della destra alla strumentalizzazione delle paure degli italiani non coglie il vero dato di base e cioè che Berlusconi, con un’abile politica di alleanze, è stato in grado di
rispondere alla percezione del declino del paese, coniugando un impianto nazionale ad uno locale, mentre la proposta del Pd non è riuscita a coniugare futuro e sicurezza”.
Certo sul fallimento della sinistra hanno pesato gli errori commessi al governo: manovre fiscali sbagliate, finanziarie mastodontiche, tesoretto, ma soprattutto la riproposizione di quella politica dei due tempi che aveva già creato problemi a Prodi nel 9 8. Anche qui però la ragione dell’insuccesso è più profonda e deriva da una semplice constatazione: la sinistra non si è accorta
di aver pareggiato le elezioni e con la sua solita “arroganza tecnocratica” ha pensato di poter dirigere il paese in maniera autosufficiente. Contro l’elitismo.
Ed eccoci allora al cuore del problema, all’elemento più preoccupante e persistente tra i mali della sinistra: l’elitismo. Un problema culturale e antropologico che riguarda almeno i due terzi della classe dirigente del Pd. Il pezzo di matrice post-comunista infatti è per lo più formato da “personale di matrice sessantottina, di ceto medio riflessivo, cioè di studenti universitari che ad un certo punto hanno lasciato gli studi e hanno iniziato il cursus honorum nelle organizzazioni giovanili di partito diventando poi funzionari. Si tratta di personale politico strutturalmente privo di legami con la società”. La situazione non migliora se si considera quel pezzo di classe dirigente di matrice tecnocratica, generalmente riunita attorno a Prodi, che pur vantando un bagaglio formativo assolutamente eccezionale, frutto di una formazione rigorosa nel settore dell’economia mista italiana, è tuttavia completamente privo di qualsivoglia radicamento territoriale. Riflessione a parte va fatta per il terzo pezzo, quello ex-democristiano di ispirazione popolare, che “inspiegabilmente non è ancora riuscito a far emergere le grandi risorse di rappresentanza che pure ha sempre avuto”. Il fatto che il Pd abbia guadagnato voti a sinistra perdendone al centro è un fatto che conferma questa anomalia.
Superare questo stato di cose è assolutamente necessario ma Gualtieri chiarisce che “la rimozione della vecchia classe dirigente non è una strada percorribile”. Piuttosto è indispensabile
creare le condizioni per una vera e propria irruzione dal basso, che rompa i meccanismi di cooptazione attraverso i quali le classi dirigenti riproducono all’infinito i propri difetti.
Per fare questo è necessario anzitutto mettere da parte l’idea della società liquida, individualista
e atomizzata dove ognuno dà retta solo alla tv. La società di oggi è formata invece “da una miriade di corpi intermedi, associazioni, reti complesse, gruppi formali e informali, corporazioni”.
A tutti questi gruppi non si può semplicemente chiedere di sottoporsi alla frusta del mercato perché si scatenerebbe solo rabbia e frustrazione ma c’è bisogno di dialogo e di legittimazione reciproca. In questo senso “va recuperato il collateralismo che è il cuore del modello di sussidiarietà proprio delle società europee”.
Non è vero dunque che non ci siano copri intermedi con cui dialogare e non è vero che sia impossibile produrre convergenze tra di essi: tutto dipende dalla qualità della proposta politica che si mette in campo che deve essere pragmatica e priva di schematismi preconcetti. Le primarie “possono essere uno strumento di questo percorso solo a patto che non siano l’unico e che non se ne faccia un’ideologia”.
In più è assolutamente necessario “mettere da parte l’idea che tutto sia politica: gusti, cibi, stili,
musica, perché bisogna cominciare anche a riconoscere i limiti del discorso politico”. Quindi ognuno legga quel che vuole, mangi ciò che gli piace e veda i film che preferisce. Tutto questo sembra difficile da fare, è vero, ma il Pd ce la può fare. Se non per convinzione, almeno per spirito di sopravvivenza.
Postato da anonimo – commendo a Sconfitti e Vincenti
3 commenti:
Calearo: «Sono del Pd perché non è di sinistra»
candidato Pd Massimo Calearo presidente Federmeccanica, foto Ansa
La sua candidatura aveva già fatto storcere il naso a molti, che l’avevano digerita con la necessità di un “patto tra i produttori”. Ma ora che siede in Parlamento, l’ex presidente di Federmeccanica, Massimo Calearo, si sbottona: «Il Pd? Non lo considero di sinistra». Ecco perché ha accettato un posto a Montecitorio: «Sono un uomo di centro che ha trovato spazio in un partito riformista», spiega in un’intervista a Libero.
E non usa giri di parole per rispondere alla domanda: «Che diavolo ci fa uno come lei nel Pd?». «L'ho appena spiegato ad alcuni colleghi molto potenti in Confindustria – ribatte – “Dovreste solo ringraziare di avere uno che la pensa come voi che ha contribuito in maniera importante a lasciare a casa la Sinistra arcobaleno e che, stando dall'altra parte, può mantenere anche nella minoranza le idee dell'impresa e del mercato"».
Insomma, lui e Confindustria la pensano allo stesso modo, «io – dice – resto imprenditore dalla punta dei capelli alla punta dei piedi». Peccato che il discorso di insediamento della neo presidente Emma Marcegaglia abbia raccolto soprattutto i favori di Berlusconi, che si è congratulato dicendole: «È il nostro programma».
Spiega di non essersi candidato con An per il semplice fatto che Fini aveva glissato sull’ipotesi di fare un ministro veneto. Alla fine, il governo, di ministri veneti ne ha tre: Maurizio Sacconi, trevigiano, ministro del Lavoro e delle Politiche sociali; Renato Brunetta, veneziano alla Funzione Pubblica; Luca Zaia di Conegliano, titolare delle Politiche agricole. Chissà se Calearo si sta mangiando le mani. Di certo, promette, non esiterà a votare i provvedimenti della maggioranza che lo dovessero convincere, in particolare in materia di impresa: «Grazie a Dio viviamo in una democrazia». Dove i candidati, ahinoi, non si possono scegliere.
Pubblicato il: 24.05.08
L'analisi fatta è sostanzialmente condivisibile. L'unico appunto, che mi sento modestamente di muovere, riguarda la concezione di società formata “da una miriade di corpi intermedi, associazioni, reti complesse, gruppi formali e informali, corporazioni”. Questa spiccata frammentazione della società in gruppi, aldilà della genericità della formula adottata che raccoglie entità molto diverse fra loro, qualora esista, non mi pare così evidente. Diciamo che sono vicino alle tesi baumiane sulla "liquidità moderna" per quanto concerne questo argomento. Certamente ci sono diversi gruppi in società, ma quale reale capacità aggregativa ed identitaria, oltrechè opertiva, svolgano è difficile capirlo. La questione dei corpi intermedi tra il partito e la società civile va posta. Ma bisognerebbe andare più nello specifico e vedere quali abbiano un peso e una valenza politica e quali siano solo dei conglomerati d'interessi particolari ma sostanzialmente di matrice privata, scevri da qualsiasi volontà d'influenza nella determinazione di ciò che è di pubblico pubblico.
Errata corrige: baumaniano non baumiano; pubblico interesse non pubblico pubblico. Chiedo scusa.
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